Nobiltà
ed Elite Tradizionali - Vent'anni dopo
Venti anni fa, nel 1993, veniva presentata a
Roma e Milano, con considerevole ripercussione sulla stampa, quella che sarebbe
stata l’ultima opera scritta da Plinio Corrêa de Oliveira: «Nobiltà ed élites
tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII». Oggi, gli avvenimenti
sembrano dare nuova attualità al tema.
“In nome del Papa Re. Dai salotti la marcia sul Campidoglio”;
“Professore brasiliano teorizza la controrivoluzione”; “La nobiltà al potere”;
“Stemmi e corone rivendicano il potere”; “Un importante volume di Plinio Corrêa
de Oliveira”. Ecco alcuni titoli apparsi sui giornali all’indomani del lancio
in Italia del libro di Plinio Corrêa de Oliveira «Nobiltà ed élite tradizionali
analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato e alla Nobiltà romana»
(Marzorati, Milano 1993). “Stati
generali dell’aristocrazia romana al completo”: così Il Tempo titolava il
servizio sul lancio dell’opera a Roma, presentata nell’imponente Sala del
Baldacchino di Palazzo Pallavicini, a due passi dal Quirinale. “Dobbiamo
comprendere la portata dell’appello che sale dalla gente – ha sottolineato
nella sua relazione il principe Sforza Ruspoli – il popolo vuole vedere
incarnati i valori della preghiera, dell’azione, del sacrificio, che i nostri
antenati santi, condottieri ed eroi testimoniarono a prezzo della vita”. A
Milano, il libro è stato presentato a Palazzo Serbelloni, in concomitanza col
Convegno Internazionale della Nobiltà Europea. A Napoli, la presentazione ha
avuto luogo nell’Hotel Excelsior, alla presenza di S.A.R. Carlo di Borbone,
duca di Calabria. Il successo è stato tale che anche la Repubblica ha dovuto
ammettere tra i denti: “Napoli non ha mai perduto certi umori monarchici”. Il
volume è stato successivamente presentato a Palermo, Padova, Firenze, Forlì,
Tolentino, Torino, Verona, Genova, Gavi e altre città. L’opera di Plinio Corrêa
de Oliveira, anche incoraggiata dal plauso internazionale, è stata pubblicata
in 10 edizioni, tradotta in 6 lingue, diffusa in 32 paesi. Qual è il motivo di
un tale successo? “Attualmente mi sembra che l’atteggiamento dell’opinione
pubblica sulla nobiltà sia molto meno influenzato dagli errori della
Rivoluzione francese di quanto non fosse fino a poco tempo fa”, spiegava Plinio
Corrêa de Oliveira in un’intervista al mensile francese Le Nouvel Aperçu. In un
mondo sempre più in rovina, in cui alla crisi economica si accompagna una crisi
spirituale e culturale sempre più accentuata, sembra che molte persone cerchino
sollievo elevando lo sguardo al simbolismo rappresentato dalla bellezza della
Tradizione. Comincia a nascere in molti spiriti la nostalgia di un ordine
naturale sano. Come il figlio prodigo, crescenti settori dell’opinione pubblica
rimpiangono la rottura con la Tradizione, e anelano alla restaurazione della
civiltà. Anelito che si manifesta, per esempio, nell’entusiasmo popolare per le
feste di incoronazione e per i matrimoni dei reali. Di fronte all’affermarsi di un certo
pauperismo, la difesa delle legittime gerarchie – che altro non sono che un
riflesso sociale della ricerca della bellezza e dell’eccellenza – diventa più
attuale che mai. L’opera di Plinio Corrêa de Oliveira si staglia come un
supremo sforzo in vista della salvezza della civiltà occidentale e cristiana.
Ricordando un aspetto spesso trascurato del Magistero della Chiesa, il trattato
intende proclamare la legittimità, anzi la fondamentale sacralità di una
società gerarchicamente costituita, riscoprendo il ruolo delle élite,
infondendo in esse il coraggio di riaffermare il loro tradizionale ruolo di
influenza, tanto più necessario in un mondo come quello odierno in preda ad un
disordine sempre più grande.
Anticipando un tema del numero di dicembre
della rivista Tradizione Famiglia Proprietà, ecco un articolo su questo
importantissimo tema:
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Cordialmente, JULIO LOREDO
Newsletter
dell'Associazione Tradizione Famiglia Proprietà — Novembre 2013 — 1
Vent’anni dopo
di Juan Miguel Montes
Nell’articolo “Resuscitando Darcy”,
eloquente quanto ampio (un’intera pagina), pubblicato sul Corriere della Sera
il 5 ottobre scorso, Maria Serena Natale scrive che “le monarchie non hanno
mai goduto di tanta popolarità come nell’epoca della democrazia digitale: tra
abdicazioni, matrimoni, scandali e incoronazioni in Gran Bretagna, Norvegia,
Svezia, Danimarca, Spagna e Paesi Bassi attraggono attenzione mediatica e
affetto sincero. Non è il risvolto politico che appassiona ma il velo lungo di
Kate all’altare, quel mondo lontano di carrozze, fregi, stemmi e ricami. (…)
Priva di quell’alone di sacralità, la repubblica non ha la stessa presa emotiva
sulle masse. D’altronde quando la corona annulla le distanze dal mondo
“borghese” nel tentativo di modernizzarsi, perde mordente. E il caso dei reali
svedesi, che negli ultimi 25 anni sono scesi dal 90 al 60 per cento nei
consensi”.
Un fatto da constatare
L’articolo mette con acutezza il dito
nella piaga di luoghi comuni denigratori che, a partire dalla Rivoluzione
francese, prevalgono sulle aristocrazie. Tuttavia c’è un fatto: nonostante
l’onnipresente e martellante ripetizione che se ne fa, essi non sembrano
riuscire a mutare a fondo l’animo umano. La giornalista del Corriere della Sera
aggiunge significativamente che il fenomeno da lei descritto si accentua ancor
più in momenti di crisi, di mancanza di fiducia, di caos, come quello in cui
viviamo. Si potrebbe pensare a semplice futilità, invece ciò riflette il
profondo desiderio dello spirito umano di essere appagato dal mistero, dal
trascendente e, persino, dal meraviglioso. Un’aspirazione questa che nessun
discorso sui beni materiali o sulle novità tecnologiche potrà mai soddisfare.
Secondo la Natale il voler “annullare le
distanze” per “modernizzarsi”, fa perdere “mordente” alle monarchie e riporta
l’esempio di ciò che è accaduto in Svezia: la dinastia, negli ultimi anni,
imborghesendosi ha perso, di conseguenza, sempre più consenso. Questa, in
realtà, è una constatazione che vale non solo per le monarchie ma anche per
altri ambiti, quali, ad esempio, la liturgia e l’architettura. Insomma, è una
esigenza che trapela proprio dal popolo comune, il quale sovente si stanca del
grigiore massificante e degli appiattimenti cui è costretto, manifestando prima
o poi l’anelito all’esatto opposto.
Un libro storico
Venti anni fa, nel 1993, alla fine di
ottobre, venne presentata a Roma, con considerevole ripercussione sulla stampa,
quella che sarebbe stata l’ultima opera scritta da Plinio Corrêa de Oliveira.
Parliamo del saggio: “Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni
di Pio XII”. Il pensatore brasiliano, prendendo spunto dal magistero di papa
Pacelli e discernendo l’esaurimento della spinta propulsiva al discorso
ugualitario imposto dalla Rivoluzione Francese in poi, invitava l’aristocrazia
ed élites tradizionali analoghe ad una ripresa del loro ruolo di servizio al
bene comune, al fine di illuminare come un faro il resto del corpo sociale con
le loro eccellenze culturali e morali, in tempi che già si preannunciavano di
crescente confusione e oscurità.
“Oggi – asseriva il filosofo cattolico – gli
errori della Rivoluzione del 1789 vanno ‘invecchiando’ e perdendo influenza.
Ciò non significa che tale influenza sia piccola, ma è minore di un tempo e
tende a diminuire sempre di più”.
L’evento, svoltosi nella magnifica
cornice di Palazzo Pallavicini a Roma, allarmò la Repubblica, diretta da
Eugenio Scalfari, pontefice massimo del secolarismo sinistrorso, finendo in
prima pagina, nella cronaca interna e nel fondo. Un altrettanto noto quotidiano
della Capitale, Il Tempo, salutava, al contrario, con beneplacito la monografia
di Plinio Corrêa de Oliveira. Dopo aver qualificato l’autore come “maître à
penser della Destra”, ne riconosceva il merito avuto nel riproporre, in termini
originali, un valido invito all’impegno di un ceto singolarmente vocato al
servizio della società. Un’idea, questa, rafforzata, secondo la cronaca del
quotidiano romano, dal Cardinale Alfons Stickler che, in conclusione del
convegno, affermò: “Come i triari romani che, marciando alle spalle delle
legioni, erano capaci di ribaltare la disfatta in vittoria, così l’aristocrazia
deve sapere trasfondersi nell’animazione cristiana della società”.
Due opzioni preferenziali armoniche
È questo un discorso valido nel mondo di
oggi e nell’ambito di una “Chiesa dei poveri e per i poveri”, si domanderà
qualcuno? È ragionevole chiedere, come faceva l’autore del saggio, un’azione
anche pastorale in favore delle élites che si affianchi alla giusta e ampia
azione per i bisognosi, all’opzione preferenziale per i poveri, come era solito
dirsi allora?
Tralasciando il fatto che anche le
élites sociali si trovano, non di rado, impoverite nell’attuale contesto
storico, Plinio Corrêa de Oliveira sottolineava che una eventuale opzione
preferenziale per i nobili non esclude quella per i poveri, e l’una non si
contrappone all’altra, come insegna Giovanni Paolo II: “Sì, la Chiesa fa una
opzione preferenziale per i poveri. Una opzione preferenziale, si badi, non
dunque un’opzione esclusiva o escludente, perché il messaggio della salvezza è
destinato a tutti”. Entrambe le opzioni rappresentano modi diversi di
manifestare il senso di giustizia e carità cristiana che sole possono
affratellarsi nel servizio dell’unico Signore, Gesù Cristo, che fu modello dei
nobili e dei poveri. Queste parole servano di chiarificazione per coloro i
quali, animati dallo spirito della lotta di classe, ritengono che esista una
relazione inevitabilmente conflittuale tra il nobile e il povero.
L’autore brasiliano poneva l’accento,
alla maniera dell’agere contra ignaziano, sulla prevalente tendenza utopica e
demagogica che pretende di appiattire tutti in una massa ugualitaria e anonima.
Qualcosa che equivarrebbe a negare la realtà che ci mostra come - al di là
della essenziale uguaglianza di tutti gli uomini - sono legittime e necessarie
le diseguaglianze causate dagli accidenti. Infatti, Pio XII, nel Radiomessaggio
del Natale 1944, insegnava che “le ineguaglianze provenienti da accidenti
come le virtù, il talento, la bellezza, la forza, la famiglia, la tradizione
ecc., sono giuste e conformi all’ordine dell’universo”.
Rinasce l’egualitarismo utopico?
Tale dottrina delle giuste ineguaglianze
fu sostenuta da san Tommaso come un bene di per se stesso, in quanto riflesso
dell’ordine della Creazione e una via per conoscere ed amare il Creatore. In
seguito, essa è stata ribadita da un lungo magistero pontificio in cui
armonicamente trovano posto e legittimazione grandi, medi e piccoli in un
ordine sociale che – sebbene debba fornire condizioni degne e giuste per tutti
- non deve mai puntare al livellamento totale.
Come si sa, il discorso egualitario dal
sapore marxista è stato apparentemente superato dal crollo dell’impero
comunista. Tuttavia esso viene riproposto in modo ricorrente da tendenze,
persino cattoliche, che vorrebbero trasformare anche la Chiesa in un campo di
battaglia di “oppressi” contro “oppressori”, aggiornando così la teoria della
lotta di classe, nonostante si cerchi opportunisticamente di negare
l’apparentamento originario a Marx, figura ormai screditata, per associarla a
un presunto obbligo religioso.
Una grande occasione di propaganda i
neo-egualitari la trovano or ora in certe situazioni createsi con la crisi
finanziaria ed economica internazionale, certamente originata anche da azioni
profondamente immorali, ma che non si risolve affatto attingendo a ricette
egualitarie bocciate dalla storia, dopo che esse hanno dimostrato la loro
intrinseca incapacità di migliorare le condizioni di vita. Un fatto dovuto proprio
al diniego utopistico delle legittime differenze presenti nell’ordine naturale
e sociale.
Ma il discorso neo-egualitario trova
conferma nella realtà attuale?
Le nazioni più avanzate non sono
ugualitarie
L’opera di Plinio Corrêa de Oliveira
segnalava il carattere organico e naturale della formazione di un’élite
dirigente storica e a conferma di ciò mostrava come anche nei modernissimi
Stati Uniti, una nazione nata repubblicana, si siano formate famiglie eminenti
che fanno di questo Paese una realtà largamente aristocratica e tendenzialmente
tradizionale. Altroché mito degli Stati Uniti, nazione super-egualitaria. Ciò
conferma un’altra constatazione sull’ordine naturale già messa in evidenza da
Papa Pacelli: “Anche nelle democrazie di fresca data e che non hanno dietro
di loro alcun passato di vestigio feudale, si è venuta formando, per la forza
stessa delle cose, una specie di nuova nobiltà o aristocrazia” (Allocuzione
al Patriziato e alla Nobiltà romana, 1947).
A questo punto sarebbe da domandarsi se
un analogo processo di ricreazione dell’élite sociale e culturale non stia
avvenendo ora persino nella ex Unione Sovietica, cioè in quello che fu un
gigantesco laboratorio per la costruzione della società assolutamente
ugualitaria. A parte la prevalenza socio-economica di personalità di origine
più o meno dubbia, a volte fortemente coinvolte nella realtà comunista
precedente, è un fatto noto che vecchi rappresentanti della nobiltà in esilio
siano tornati da Londra e Parigi a Mosca e San Pietroburgo, dove hanno trovato
accoglienza ed affetto sia nel popolo sia nei circoli culturali e religiosi più
importanti della Russia, i quali vedono in loro genuini rappresentanti di una
identità che i bolscevichi cercarono di cancellare.«Chassez le naturel, et
il reviendra au galop» dicono i francesi.
Nessuno è immune dal lustro della
tradizione
Si sa, inoltre, che i nuovi ricchi russi
e cinesi sono i maggiori datori di lavoro di maggiordomi laureati in esclusive
accademie londinesi. Trattasi di persone di notevole formazione culturale,
capaci non solo di organizzare eventi sociali e di coordinare il personale di
servizio, ma in grado di parlare ottimamente le lingue e discorrere sui più
svariati argomenti storici e di attualità, con quell’elevata raffinatezza
raggiunta in genere nell’Europa occidentale e, in specie, dalle casate
gentilizie britanniche. Ed è proprio questo, a parte naturalmente la ricchezza,
che molti tra i nababbi dei paesi emergenti vorrebbero trasmettere ai propri
discendenti, riconoscendo così la superiorità della tradizione sul mero potere
del denaro. Del resto, non a caso Papa Pacelli diceva ai nobili nel saluto
annuale del 1958 che persino chi “ostenta noncuranza e forse disprezzo per
le vetuste forme di vita, non va del tutto immune della seduzione del lustro”.
Da qui l’attualità e persino la nota di
preveggenza presente nel pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira. Nonostante
l’involgarimento generalizzato e l’appiattimento indotto, forse anche proprio a
causa di questo, vasti settori dell’opinione pubblica si aprono sempre di più a
tendenze e idee contrarie all’andazzo corrente. Parlando del ruolo della
“Nobiltà e delle élites tradizionali analoghe”, egli non pensava certo alla
ripresa del ruolo, come corpo costituito, nella direzione dello Stato che la
nobiltà aveva avuto in passato, dalla difesa militare alla diplomazia alla
magistratura, bensì di mettere al servizio del bene comune “il suo
inestimabile capitale di principi, di tradizioni, di stili di vita e di modi di
essere, la cui perdita andò in detrimento delle altre classi sociali, passate a
vivere sotto l’influenza criticabile e, a volte, perfino ridicola dei nuovi
ricchi”.
Questo, e non altro, era poi il fulcro
delle allocuzioni rivolte da Papa Pacelli alla nobiltà e al patriziato romano:
utilizzare le risorse che restano loro per avviare un nuovo corso di elevazione
culturale, morale e religiosa in beneficio di se stessi e del resto della
società.